Cesare Sacchetti. La strategia di Trump su Israele e il mondo ebraico progressista americano
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Cesare
Sacchetti. La strategia di Trump su Israele e il mondo ebraico
progressista americano
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26
ottobre 2023
(presentato
da Ben Boux www.lanuovaumanita.net)
Il
genocidio di Gaza e la corrispondenza tra Pike e Mazzini sullo
scontro tra sionismo e mondo arabo
Di
Cesare Sacchetti
È un
argomento piuttosto in voga in questi giorni e che è stato anche in
passato al centro del dibattito politico italiano e internazionale.
Si
tratta della questione dei rapporti tra Donald Trump e lo stato di
Israele. Ci sono alcuni osservatori, non di rado in malafede, che
tendono a liquidare Trump come l’ennesimo presidente degli Stati
Uniti saldamente asservito alla potentissima lobby sionista che per
molti decenni è stata il vero dominus dello stato profondo di
Washington.
Noi
riteniamo che ciò non sia affatto vero ma non una cieca professione
fideistica nei confronti del presidente americano come alcuni
potrebbero credere ma piuttosto per una razionale analisi della
strategia comunicativa e politica di Donald Trump.
Se
non si comprende difatti quest’ultima non si comprende nulla del
fenomeno Trump. Si rischia di cadere nella tela di quella che noi
abbiamo definito in più di un’occasione “falsa
controinformazione”, ovvero quel filone di disinformatori
prezzolati che hanno il preciso scopo di ingannare il pubblico
attraverso la loro interminabile serie di depistaggi.
Si
tratta di personaggi che in larghissima parte diffondono teorie dal
chiaro sapore gnosticista e new ageano e che hanno diffuso il triste
e mendace mantra del “ci salviamo da soli”.
A
loro spetta il compito di allontanare il pubblico da ogni possibile
riferimento politico e spirituale per poter rinchiudere il lettore in
una sorta di delirio di onnipotenza di memoria nietzschiana nella
quale l’uomo, e soprattutto la delirante figura filosofica del
superuomo, diviene la misura di tutte le cose e dio, falso, della
realtà che la circonda.
A noi
interessa rimuovere questo cumulo di inganni per aiutare a capire
veramente sia qual è la via da seguire che porta lontano dallo
gnosticismo e vicino al cattolicesimo tradizionalista, e interessa,
al tempo stesso, aiutare a capire meglio qual è la posizione di
Donald Trump su Israele e la lobby sionista.
Per
poter fare ciò, occorre tornare alle origini della nascita del
fenomeno politico di Trump.
I poteri che comandano
l’America
Gli
Stati Uniti sono sempre stati governati da un duopolio controllato
che vedeva da un lato contrapposti li partito repubblicano e il
partito democratico dall’altro.
Tale
divisione del campo politico è l’elemento caratteristico di tutte
le liberal-democrazie Occidenatli nelle quali esistono due fazioni
che sono sostanzialmente controllate dagli stessi poteri massonici e
sionisti che a volte differiscono solamente sui mezzi per giungere a
fini prestabiliti, ma non sul raggiungimento di quegli stessi fini.
Donald
Trump è stato l’elemento che nel 2016 ha rotto tale equilibrio e
ha fatto saltare gli schemi del duopolio controllato con la sua
candidatura che è stata fortemente avversata dai neocon sionisti
repubblicani e ovviamente dallo stesso partito democratico.
Ciò
si spiega con il fatto che il programma di Trump rimetteva in
discussione quello che fino ad ora nessun politico americano aveva
mai avuto il coraggio di mettere in discussione.
Trump
è stato il primo presidente dal dopoguerra a dichiarare che gli
Stati Uniti non dovevano essere più una nazione al servizio di
determinati circoli globalisti e sovranazionali, ma piuttosto
avrebbero dovuto tornare ad una dimensione puramente sovranista e
nazionale.
Il
passaggio dall’impero americano agli Stati Uniti indipendenti da
ogni lobby o club mondialista è stato quello che ha fatto scattare
una feroce aggressione di ogni parte politica nei suoi confronti.
Non
si era mai vista un’aggressione così feroce dei media mainstream
nei confronti di un candidato alle presidenziali, e non si era
nemmeno mai visto un candidato oggetto di un vero e proprio golpe
internazionale, quale lo Spygate, che ha visto impegnata la
presidenza Obama e Hillary Clinton assistiti, secondo diverse fonti,
dall’allora governo Renzi e dai servizi italiani nel lanciare una
massiccia operazione eversiva nei danni di Donald Trump.
Ciò
si spiega con il fatto che Trump mise in discussione il caposaldo
principale sul quale si fonda il potere dell’anglosfera dal 1945 in
poi, che non è altro che il ruolo degli Stati Uniti come milizia
armata ed economica al servizio di quei poteri sovranazionali che
hanno dominato questa nazione e l’Europa per molti anni.
La
dottrina di Trump era, ed è, quella di mettere fine agli interventi
armati americani ordinati da questi poteri per punire coloro che
osavano non allinearsi ai diktat del mondialismo.
Il rapporto tra Trump e
Israele
Ciò
lo ha messo inevitabilmente contro tutto l’apparato del cosiddetto
Nuovo Ordine Mondiale e indirettamente anche contro la stessa
Israele.
Qui
inizia l’analisi del rapporto tra Trump e Israele, perché, se
qualcuno legge le dichiarazioni di Trump di rinnovata amicizia nei
confronti dello stato ebraico potrebbe essere ingannevolmente portato
a credere che Trump non si sia discostato molto dai neocon come, ad
esempio, l’amministrazione Bush.
In
fondo, un magnate ultrasionista come Sheldon Adelson, era tra i
donatori della sua campagna elettorale, finanziata in larga parte da
Trump stesso, ma Adelson era donatore stabile di ogni campagna
repubblicana e probabilmente non ha colto minimamente il fatto che
Trump aveva una politica del tutto diversa da quella dei suoi
predecessori neocon.
I
neocon hanno messo a ferro e fuoco il Medio Oriente pur di compiacere
Israele mentre Trump su questa questione ha assunto una posizione
radicalmente differente.
Il
presidente americano ha semplicemente stabilito che il tempo delle
guerre scatenate su impulso della lobby sionista è finito.
Se
guardiamo infatti alle guerre scatenate o favorite dalle varie
presidenze americane negli ultimi 20 anni, vediamo che ogni singolo
Stato giudicato “nemico” da Israele è stato oggetto di invasione
militare o di tentativi di rovesciamento attraverso gruppi di
tagliagole finanziati dal terrorismo wahabita con il quale Israele ha
intrattenuto strette relazioni negli anni passati.
È
stato il caso dell’Iraq di Saddam Hussein rovesciato perché da
sempre ostile ad ogni piano di allargamento di Israele, ed è stato
il caso del presidente Assad considerato un ingombrante ostacolo
nella realizzazione del piano della Grande Israele che vedrebbe uno
smantellamento della Siria per essere annessa successivamente ad un
eventuale impero israeliano allargato.
Il
Medio Oriente è divenuto la zona più instabile al mondo perché lo
stato di Israele dalla sua nascita nel 1948 non mira solamente a dare
un piccolo pezzo di terra ai vari ebrei sparsi nel mondo che non
hanno, tra l’altro, nemmeno tutta questa passione per questo Stato.
C’è
molta più ambizione, e delirio a nostro parere, nei fondatori del
sionismo messianico che vorrebbero espandere Israele fino a farle
raggiungere gli antichi confini biblici.
Questa
visione imperialista mette automaticamente Israele contro ogni suo
vicino perché non può esserci in tale follia espansionista alcuna
possibilità di convivenza pacifica tra Israele e i suoi vicini.
C’è
un conquistatore che vede ciò che ha intorno come terre da
sottomettere e invadere.
Gli
Stati Uniti sono stati appunto il garante militare dello stato di
Israele e la presidenza Trump attraverso la sua dottrina
rappresentata dal motto “Prima l’America” ha creato una
inevitabile separazione tra questi due Stati.
Quando
Trump afferma che gli interventi degli Stati Uniti in Medio Oriente
sono stati un disastro sta parlando indirettamente a quella lobby
sionista per farle capire che Washington non è più la milizia
privata di Tel Aviv.
E non
poteva essere altrimenti perché se la politica estera americana
entra in una fase non interventista e “isolazionista” va da sé
che gli interessi di Israele che ambisce ad espandersi sono
inevitabilmente messi in discussione.
Trump
però adotta una strategia comunicativa abile e maschera la sua
ostilità al sionismo per delle ragioni molto precise che ora andremo
a spiegare, e che riguardano il contesto nel quale si trova ad
operare.
I gruppi ebraici che
influenzano l’America
Gli
Stati Uniti sono una nazione che è dominata dalle due anime
dell’ebraismo, quella sionista messianica e quella
liberal-progressista.
Sono
queste due correnti del mondo ebraico che influenzano a loro volta le
posizioni del centrodestra e del centrosinistra europeo, e Trump con
grande astuzia ha preteso di apparire schierato con l’una per
attaccare l’altra, quando in realtà non appoggia nessuna delle
due.
Un
esempio di questa strategia comunicativa del presidente americano si
può trovare nelle sue recenti dichiarazioni contro gli ebrei
americani liberali.
Trump
li ha accusati di essere una minaccia per gli Stati Uniti ed Israele.
L’ebreo liberale del quale sta parlando Trump è quello che abbiamo
descritto in altre occasioni.
È un
tipo di ebreo internazionale con poco attaccamento verso Israele e
un’anima decisamente più cosmopolita e internazionale.
George
Soros è l’archetipo perfetto per descrivere tale ebreo. Soros non
è contro Israele ma al tempo stesso reputa più importante nella sua
ottica globalista fare in modo che lo scettro del potere sia detenuto
dalle varie istituzioni sovranazionali e non da Israele.
È
una visione questa che non assegna chiaramente alcun primato ad
Israele come avviene invece nel mondo del sionismo messianico, nel
quale lo stato ebraico è una sorta di nazione eletta.
Gli
Stati Uniti sono un Paese protestante e nelle varie fazioni che
compongono l’eresia del protestantesimo il sionismo viene visto
come un elemento integrante del cristianesimo.
Sono
le famose e incompatibili radici giudaico-cristiane che vengono
citate da un altro sionista cristiano quale Steve Bannon, ex
consigliere di Trump, allontanato poi da Trump stesso.
Il
protestantesimo si fonda su un’eresia e la sua teologia ha molto
poco in comune con il cristianesimo perché attraverso la dottrina
della predestinazione si spoglia l’uomo del suo libero arbitrio e
lo si riduce ad una marionetta la cui salvezza non passa più dalle
opere di bene ma dalla sola ed esclusiva volontà di Dio.
Era
questo che portava Lutero ad affermare “pecca più che puoi”
perché in tale ottica non ha importanza se si opera il bene o il
male. La salvezza non passa più dagli atti che compie l’uomo in
quanto essa è già stata decisa indipendetemente o meno da ciò che
il peccatore ha fatto in vita.
E nel
mondo protestante, o almeno in larga parte delle innumerevoli fazioni
che lo compongono, gli ebrei vengono visti ancora come il popolo
eletto che non ha necessità di credere in Cristo per salvarsi.
E’
il caso ad esempio del telepredicatore ultra-sionista John Hagee che
nei suoi sermoni televisivi sostituisce la fede in Cristo in quella
in Israele.
È
Israele il vero dio di tali protestanti, e non il Redentore. È in
pratica un’altra religione che non è certamente quella cristiana.
In
tale contesto Trump ha scelto di giocare una partita diversa nella
quale si limita a mostrare una stima formale nei confronti di Israele
ma nella pratica poi concede ad essa molto poco.
Lo
abbiamo potuto vedere durante la sua presidenza. I detrattori di
Trump sostengono che il presidente americano si è rivelato un
“servo” del sionismo per via del suo riconoscimento di
Gerusalemme come capitale di Israele, ma tali detrattori non
spiegano, spesso per la loro malafede, che Trump ha poi rimandato
questa decisione attraverso la firma del rinvio semestrale
esattamente come facevano i suoi predecessori.
La
legge del Congresso americano che riconosce che Gerusalemme è la
capitale di Israele risale al 1995 ed essa concede al presidente
degli Stati Uniti di esercitare una proroga di sei mesi nel suo
riconoscimento definitivo e ogni presidente si è avvalso di tale
facoltà.
Ad
oggi, per poter considerare definitivo il riconoscimento di
Gerusalemme come capitale da parte degli Stati Uniti è necessario
che l’ambasciatore americano abbia una residenza permanente in tale
città, una condizione che non risulta ancora essere stata
soddisfatta.
Gli
Stati Uniti hanno ancora una missione diplomatica a Tel Aviv
congiuntamente a quella di Gerusalemme e questo impedisce a sua volta
il riconoscimento definitivo e formale.
Tramite
questo riconoscimento, non ancora compiuto, Trump ha cercato di
tenere a bada la lobby sionista senza però soddisfare mai realmente
la sua agenda.
L’altra
questione che “grava” contro Trump e che vorrebbe associarlo ad
Israele è quella dell’omicidio del generale iraniano Soleimani.
Su
questa questione esistono almeno tre diverse ipotesi.
La
prima vede il generale divenuto come una sorta di mina vagante per
Teheran stessa che avrebbe accettato quindi la sua uscita di scena.
La
seconda invece vede i neocon presenti nell’amministrazione Trump,
quali Bolton e Pompeo, attaccati pubblicamente dal presidente
americano, come coloro che avrebbero teso una trappola al presidente
per costringere a dare l’ordine di uccidere il generale iraniano.
La
terza afferma che in realtà il generale non sia stato ucciso
realmente e che Trump si sia messo d’accordo sottobanco con gli
iraniani per impedire una escalation e giocare la lobby sionista.
Non è
noto a tutti infatti che Trump ha sempre mantenuto un canale di
comunicazione sotterraneo con Teheran.
Anche
se per un istante prendiamo in considerazione la seconda ipotesi,
quella di un Trump “forzato” a dare l’ordine, noi invitiamo a
considerare cos’è che voleva veramente Israele dal presidente
all’inizio del suo mandato.
Israele
sperava che attraverso l’uscita dall’accordo sul nucleare
iraniano, gli Stati Uniti avrebbero finalmente deciso di scatenare la
guerra all’Iran, grande nemesi del sionismo, che Israele, da sola,
non ha nessuna possibilità di vincere.
L’Iran
rappresenta un ostacolo insormontabile per il compimento della Grande
Israele.
Sono
circa 20 anni infatti che la lobby sionista prova a rovesciare in
ogni modo il governo iraniano e sono circa 20 anni che questa
raccoglie fallimenti su fallimenti.
L’unica
opzione disponibile è quella della guerra che soltanto gli Stati
Uniti hanno la forza militare di poter fare.
Trump
ha detto no a questo folle piano sionista e nonostante l’onoricenza
che l’organizzazione sionista di America, la ZOA, gli ha tributato
– probabilmente nel tentativo di continuare ad esercitare qualche
pressione lobbistica su di lui – sta di fatto che Donald Trump è
stato il primo presidente americano a togliere ad Israele la potenza
delle forze armate americane.
Tra
l’altro, la stessa ZOA a sole due settimane di distanza dal premio
conferito a Trump ha mostrato quasi un pentimento verso questa
decisione quando ha attaccato il presidente per la sua cena con Kayne
West e Nick Fuentes.
I
rapporti poi tra le due parti si sono incrinati definitivamente
quando Netanyahu fu uno dei primi a riconoscere Biden come presidente
nonostante la massiccia frode elettorale, circostanza per la quale
poi Trump mandò pubblicamente a quel paese il premier israeliano.
Nonostante
le apparenti dichiarazioni di stima, le relazioni tra Washington e
Tel Aviv erano già in deterioramento nel 2018 quando Trump decise di
ritirare le truppe americane in Siria andando chiaramente contro gli
interessi di Tel Aviv che invece voleva mantenere quel contingente
immutato nella speranza, vana, di poter rovesciare un giorno Assad.
Resta
a sostegno della debole tesi di un Trump nelle mani dei gruppi
sionisti, il suo rapporto di parentela con Jared Kushner, marito
della figlia Ivanka, convertitasi all’ebraismo per sposare Kushner.
Anche
in questo caso è noto che Trump ha avuto non pochi problemi con il
suo ingombrante genero, tanto da lamentarsi di lui in più di
un’occasione perchè la sua lealtà andava più ad Israele che agli
Stati Uniti.
E
anche oggi la posizione di Trump non sembra essere affatto immutata
con i bombardamenti israeliani contro Gaza. Trump a parte qualche
dichiarazione iniziale di amicizia verso Israele, non è andato
oltre. Nessuna dichiarazione di sostegno militare incondizionato a
Israele. Nessuna promessa di scendere a fianco degli israeliani sul
campo di battaglia.
Possiamo
comprendere che qualcuno gradirebbe un approccio più scoperto e meno
tattico da parte del presidente su tale questione, ma in politica a
determinati livelli, certe strategie appaiono imprescindibili per
evitare di fare danni maggiori.
Per
leggere bene la posizione di Trump su Israele è necessario dunque
non fermarsi solamente alle sue dichiarazioni di sostegno formale,
oppure se ci si vuole fermare solo a quelle occorre leggerle a fondo
per vedere i messaggi che il magnate semina in esse.
E’
il caso di una sua recente dichiarazione di elogio al gruppo di
milizia libanese Hezbollah, uno dei “nemici” di Israele.
E la
stessa strategia comunicativa è stata da lui adottata riguardo
Putin, apparentemente criticato in un’occasione e poi
successivamente elogiato.
Questa
è la tattica che Trump utilizza per ingannare i media e al tempo
stesso comunicare al suo pubblico le sue vere idee su determinate
questioni.
Resta
comunque da prendere in considerazione la domanda su quali benefici
Israele ha realmente ottenuto da Trump.
La
risposta, considerato tutto quello che è stato detto, è molto poco.
Trump ha fatto molto per gli Stati Uniti e nulla di quello che voleva
realmente la lobby sionista.
È
questo che lo rende un’eccezione unica nel panorama della politica
americana, dove ognuno è controllato da una lobby o da gruppi di
potere globalisti.
Trump
risponde solo e soltanto al suo popolo e agli Stati Uniti d’America.